Oggi è venuta a mancare nonna Lu.
Il mio approccio con la morte è stato letale (LOL). Perdere qualcuno è già di per se doloroso. La mia prima perdita reale (vissuta, sentita) è stata l’amore della mia vita. Anche questa è una cosa intensa quando la vivi, soprattutto se quando ti succede di anni ne hai trentacinque scarsi e di necessità di quella persona una discreta dose. Ricordo ancora la prima volta che ho ragionato filosoficamente sul significato della dipartita. Era una frase che riguardava le possibilità che abbiamo come individui, nel nostro essere tali. La morte è conditio sine qua non dell’esistenza umana e nel suo compiersi si rivela nella sua essenza totalizzante, annullando la realizzazione di qualsiasi altra prospettiva. Così è per chi ci lascia, non v’è alternativa. Di quelle ne restano in abbondanza a quelli restano (che vocabolario ampio). Una delle domande, espressa in varie forme, che più frequentemente mi è stata posta in quest’ultimo periodo è stata “e mo’ che fai?”. E che cazzo ne so. Improvviso. Sopravvivo. A giornate vivo più forte di quanto abbia mai fatto in vita mia, perché mi sembra il modo più efficace per dimostrare di aver capito la lezione, per provare a trarne qualcosa di buono. A volte invece passo in rassegna i modi migliori per annientarmi, anestetizzarmi e trovare semplicemente il modo di dormire, sperando che il giorno successivo sia quello che Cesarino mio avrebbe definito un giorno migliore. La morte, quando riguarda qualcuno che ci sta vicino, è un piccolo macigno nel marsupio, è una morsa alla bocca dello stomaco che a momenti stringe e a momenti si allenta, è l’inaccettabile consapevolezza che certi momenti non torneranno più. Parlarne è difficile per me. Aprirsi con qualcuno rende vulnerabile te, ma peggio ancora mette l’altro nella condizione di cogliere da te qualcosa di oscuro. Io, per esempio, rifuggo dall’idea di appesantire chi mi sta intorno. Ognuno c’ha i cazzi suoi e quando parlo mi piace pensare di farlo in modo costruttivo e propositivo, o perlomeno leggero e superficiale. Per questo scrivo adesso. Quando senti qualcuno parlare puoi senz’altro scegliere di ascoltarlo o meno, ma difficilmente riuscirai a schivare l’onere e il peso di una conversazione del genere. Quando leggi invece no. Se leggi scegli di farlo. Questo mio è più un flusso di coscienza che qualsiasi altra cosa. Non so nemmeno se lo renderò pubblico. Forse mi basta mettere in fila i pensieri per fare pace con il dolore. Forse mi basta battere qualche riga per fare un pò di catarsi. O magari lo condividerò nella sola speranza che qualcuno ne possa trarre in qualche modo beneficio e che si senta meno solo.